Divertente riscoprire i romanzi di fantascienza di fine anni 50. Soprattutto quelli della cosiddetta “fantascienza tecnologica” (hard-SF in inglese)
Pur ancora con una certa ingenuità di fondo, essendo stati scritti negli anni tra il lancio dello sputnik e lo sbarco sulla luna, offrivano ancora spazio per una fantasia, ma nell’ambito della plausibilità scientifica, senza quelle complicazioni di tipo esoterico e parapsicologico, che riuscivano bene a Phlilip K. Dick quando usava la fantascienza come analisi della società (tipo “Do androids dream of electric sheeeps ?” o “La svastica sul sole“), ma che spesso diventando pallosissime, in altri autori moderni.
L’inglese Henry Kenneth Bulmer non appartiene certo alla schiera di autori di scienze-fiction assurti a scrittori di valore assoluto fuori dal genere (ricordo che la fantascienza è stata spesso un ottima ambientazione per capolavori che affrontavano temi molto profondi (come i due citati romanzi di Dick o “I mercanti dello Spazio” di Pohl e Kornbluth)
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